Onorevoli Colleghi! - La presente proposta di legge riguarda l'attivazione di un marchio di certificazione per le imprese che non utilizzano lavoro minorile nelle loro attività economiche.
      Stiamo vivendo un'epoca ricca di complessità, fenomeni e tendenze che ormai superano ogni questione nazionale e coinvolgono sempre più nuovi problemi di sovranazionalità e, quindi, comportano la necessità di inventare e concordare una governance adatta alle mutate realtà. La globalizzazione non investe solo i mercati dei beni, dei servizi, della moneta e della mobilità delle persone, ma anche la globalizzazione di nuovi modi di produrre, di consumare e di vivere. C'è sempre più una interdipendenza fra le azioni e le politiche del piccolo quartiere locale con altri quartieri sparsi nel mondo. I concetti nuovi di tempo e di spazio sembrano far vacillare vecchie concezioni, culture e teorie sociali ed economiche. Diventa sempre più difficile intervenire legislativamente su variabili della realtà locale, che hanno determinanti agenti ed interagenti in tempo reale e in luoghi anche molto lontani.
      Le sedi ottimali di intervento sono quelle internazionali, fondate sulle convenzioni, il reciproco consenso, la volontarietà, la negoziazione

 

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bilaterale e multilaterale, la promozione di codici di comportamento. La «bussola comune» non può che essere il riconoscimento e il rispetto dei diritti fondamentali delle persone, dei diritti di cittadinanza dell'uomo sulla terra. Una giusta battaglia, per contrastare il fatto che le bambine e i bambini debbano lavorare anziché, comunque e ovunque, giocare, crescere, formarsi, vivere con dignità e stare bene, è quella dell'impegno dei Governi italiani, nelle sedi e negli organismi internazionali, per salvaguardare tutti i diritti umani fondamentali.
      Un intervento legislativo interno nazionale sembrerebbe, già in partenza, avere poca efficacia e poco valore. Ma l'impegno solo nelle sedi internazionali può diventare con facilità un alibi per scaricare il coraggio, il dovere, la fatica e il rischio di trovare una soluzione efficace, seppur parziale, ad un problema scottante. La presente proposta di legge si presenta, senza arroganza ed ipocrisia, come un vero inizio incisivo, reale e fattibile, di una politica che può creare uno sviluppo economico più rispettoso dei diritti di cittadinanza. Non si tratta di un mero segnale, ma di un fatto tangibile di salvaguardia dei diritti umani, a partire da quelli dei nostri bambini. Adesso, qui ed ora, come afferma don Primo Mazzolari, senza rinvii e lavande più o meno profumate delle nostre mani.

      La questione bambini. Nel quadro internazionale di palese ingiustizia sociale, in cui la povertà è un circolo vizioso da cui difficilmente possono uscire le singole persone, le singole famiglie e i popoli interi per la non democrazia economica, la questione del lavoro dei bambini non è affatto isolata dai problemi del sottosviluppo e della povertà, anzi ne è una conseguenza. Il lavoro minorile è correlato alla povertà, allo sfruttamento economico, alla disoccupazione e alle malattie.
      Di vera schiavitù si può parlare per i bambini che lavorano nelle fornaci a carbone nello Stato brasiliano del Mato Grosso; sempre in Brasile i bambini lavorano senza regole di sicurezza ed igiene nelle piantagioni di caffè, di tè e di tabacco. In alcune piantagioni di canna da zucchero i bambini rappresentano quasi un terzo degli occupati e il 40 per cento delle vittime di incidenti sul lavoro; in Asia meridionale bambini di 8-9 anni sono dati dai genitori come pegno per i prestiti ottenuti dai proprietari delle fabbriche; in India la vendita dei bambini è molto diffusa per il sostentamento delle famiglie e i minori lavorano in agricoltura e nelle industrie locali dei tabacchi, dei fiammiferi, dell'ardesia e della seta; nello Stato indiano dell'Uttar Pradesh i bambini sono schiavizzati nell'industria dei tappeti, lavorando come bestie anche più di venti ore al giorno; sempre in India i bambini sono impiegati nella produzione di palloni, gioielli e scarpe. In Perù i bambini sono sfruttati nei complessi minerari, in condizioni inumane: la miniera Rinconada, infatti, si trova a 5.400 metri di altitudine sul ghiacciaio dell'Ananea, con temperature inferiori ai 26 gradi sotto zero, e i bambini lavorano per più di dieci ore giornaliere di giorno e di notte. In Costa D'Avorio e in Sud Africa i bambini sono sfruttati nelle miniere di oro e di diamanti. In Colombia i bambini estraggono il carbone dalle miniere senza protezioni, inalando polvere di carbone; nelle fabbriche di ceramica e di porcellana i bambini inalano silicio, nelle industrie dei serramenti respirano fumi nocivi emessi da sostanze chimiche pericolose. Sempre in Colombia i bambini che lavorano nei vivai che esportano fiori sono esposti ai pesticidi.
      Anche in Italia la questione del lavoro minorile è presente ed è correlata all'abbandono scolastico per un'occupazione immediata, specie nel nord-est, e per un'occupazione comunque sia, a causa della povertà e del disagio giovanile, specie nel Mezzogiorno. A tale riguardo, il Parlamento ha svolto un'indagine sul lavoro nero e minorile nel Paese (Commissione XI della Camera dei deputati, XIII legislatura, 1998).
      Negli atti dell'indagine parlamentare, si legge che «lo sfruttamento dei minori si realizza anche in altri contesti ben individuati

 

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(per esempio "l'industria del divertimento") o all'interno di attività illecite controllate dalla malavita organizzata».
      Esistono solo stime approssimative: ad esempio, la CGIL ha calcolato una cifra di oltre 400.000 bambini che lavorano, la maggior parte dei quali aiutano i genitori nel lavoro. Le forme di vero sfruttamento sembrano legate alle comunità immigrate (è il caso dei rom). A Napoli i bambini lavorano illegalmente un po' in tutte le attività locali: manifatture, calzature, abbigliamento e meccanica. Alcune di queste attività sfiorano la criminalità o sono di copertura ad attività illegali. In alcune aree del Mezzogiorno è frequente il ricorso al lavoro minorile clandestino nelle imprese tessili.

      Disfunzioni dei mercati e filosofia della proposta di legge. La radice della questione del lavoro minorile, pare assodato, consiste nella persistenza della povertà. A sua volta la povertà è il frutto del sottosviluppo e, come il cane che si morde la coda, non ci può essere sviluppo in un Paese se i bambini lavorano al posto degli adulti. La competitività ottenuta dalle aziende dei Paesi che impiegano i bambini nelle attività economiche, in realtà, si ritorce sullo sviluppo di quelle stesse aziende e di quegli stessi Paesi, che per l'oggi si bruciano il domani, il futuro, le proprie vite umane. La povertà crea lavoro minorile e il lavoro minorile crea povertà. E la povertà è il divario fra i Paesi ricchi sviluppati del nord e i Paesi poveri in via di sviluppo del sud.
      L'ottima attività di ricerca e studio dell'Istituto Rezzara di Vicenza ha da tempo posto in luce le cause del divario nord-sud, che qui cerchiamo di riportare almeno nelle sintesi apparse su «Rezzara Notizie» dell'ottobre 1999 e del marzo 2000: «La teoria di Ricardo del reciproco vantaggio, nella libera circolazione delle merci, poneva come condizione la specializzazione delle economie. L'Inghilterra e gli altri paesi europei, con l'alibi della scienza economica, specializzarono l'economia delle proprie colonie. Ancora oggi, gli studiosi indicano come causa antica e moderna del sottosviluppo la situazione strutturale di monoproduzione dei paesi in via di sviluppo. In generale, la specializzazione riguarda le materie prime: petrolio, rame, cacao, caffè, produzioni delle miniere, eccetera, e i prodotti di un'attività di sussistenza agricola. Una prima causa di aumento della povertà è la crescita della popolazione nei paesi poveri, con l'invarianza della produzione agricola, che non è più sufficiente per la sussistenza interna e lo scambio con l'estero. Una seconda causa strutturale d'incremento della povertà è lo scambio ineguale fra i paesi poveri, che offrono prodotti "poveri" a prezzi sempre decrescenti, e i paesi ricchi, che offrono prodotti industriali "ricchi" a prezzi sempre crescenti.
      La domanda del Nord di prodotti agricoli è inelastica, cioè non si adegua all'aumento dell'offerta del Sud, per cui l'equilibrio di mercato avviene con prezzi del Sud che diminuiscono e quindi comprimono guadagni e salari interni. Al contrario, le produzioni dei paesi ricchi trovano una domanda elastica dei paesi poveri con la conseguenza che l'equilibrio avviene a prezzi che aumentano all'aumentare della domanda. Questo è un meccanismo di creazione di ricchezza al Nord ed impoverimento del Sud del mondo che, insieme al pagamento degli interessi del debito dei paesi poveri, rappresentano il paradosso del finanziamento dei paesi poveri dello sviluppo dei paesi ricchi, come descritto ne: Il debito dei paesi poveri: discriminazione legale?» (edizioni Rezzara).
      Una volta raggiunta l'indipendenza nazionale i Paesi in via di sviluppo hanno continuato la dipendenza economica, l'instabilità dei prezzi delle materie prime e il deterioramento delle ragioni di scambio. Il fatto strutturale che i prezzi dei prodotti dei Paesi sviluppati siano stabili o aumentino mentre quelli dei Paesi in via di sviluppo diminuiscano rappresenta l'ineguaglianza dello scambio e il vantaggio economico solo per i Paesi ricchi. La strutturalità è causata anche dal non pieno impiego dei fattori produttivi e delle risorse interne dei Paesi poveri, che dovrebbero

 

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despecializzarsi e orientare le produzioni interne alle necessità interne, pur commerciando con l'estero.
      Non c'è dubbio che le asimmetrie dei mercati del nostro sistema capitalistico e la persistenza di una concorrenza sleale, perché non libera e solo funzionale ai Paesi ricchi, stiano creando un aumento del divario fra il nord e sud. Un divario che sta progressivamente e velocemente espandendosi, cioè la povertà sta aumentando vertiginosamente. La povertà, che impiega sempre più bambini nei processi produttivi, e la ricerca coatta della competitività violano i diritti umani fondamentali. Da qualche decennio i poli dello sviluppo e del sottosviluppo divergono e si allontanano con grande e preoccupante rapidità.
      La differenza di ricchezza fra il nord ed il sud è sempre esistita, ma la globalizzazione l'ha accentuata, come descritto da «Il rapporto 1999 su lo sviluppo umano» dell'Agenzia delle Nazioni Unite per lo sviluppo (La Globalizzazione, Rosemberg & Seller, Torino 1999).
      Un giudizio severo sulla globalizzazione viene espresso da Stefano Zamagni (vedi «Rezzara Notizie», ottobre 1999), secondo cui la globalizzazione ha fatto esplodere le disuguaglianze, dimostrando pure l'esistenza di un nuovo fenomeno che mette in crisi il modello di sviluppo capitalistico: anche quando aumenta la ricchezza aumenta la disuguaglianza. Inoltre, i ruoli svolti dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale risultano ormai incoerenti e irrazionali perché funzionali più alle economie ricche che a quelle povere.
      Negli ultimi decenni il fenomeno dell'Information Technology (IT) ha amplificato ancora più il gap fra Paesi poveri e Paesi ricchi. Quasi tutta l'IT è prodotta da circa il 15 per cento della popolazione mondiale e concentrata nei Paesi industrializzati. E se, da un lato, il 70 per cento circa della forza lavoro europea è occupata in lavori di alta tecnologia, un terzo della popolazione mondiale è letteralmente disconnesso. Solo la metà degli abitanti al mondo possiede la luce elettrica e il telefono. L'uso di internet cresce vertiginosamente, ma il fenomeno riguarda solo i Paesi dell'OCSE, gli USA e il Canada.
      Tutto questo vuole dire che c'è un'accelerazione nel divario fra nord e sud, che rappresenta pure un'accentuazione intollerabile di ingiustizia sociale relativa a situazioni di produzione e distribuzione della ricchezza. E ricchezza e sviluppo oggi dipendono sempre più anche dalla produzione e della distribuzione dei saperi.

      Politica e mercato. Il divario nord-sud che, oggi, ha raggiunto rapidamente il suo massimo storico, rispecchia l'esplosione della povertà. I modelli di sviluppo della nostra economia, di fronte alla realtà dello squilibrio strutturale nello scambio, dopo centinaia di anni di fallimenti, sono ormai in profonda crisi. Molti si pongono qualche interrogativo sull'automaticità e l'intangibilità dei meccanismi di mercato, nella loro presunta capacità di ottimizzare la produzione e la distribuzione della ricchezza. In altri termini, oggi, la ricerca di nuovi modelli e di nuove regole economiche più efficaci ed efficienti pone il problema del rapporto fra etica ed economia, fra politica ed economia, fra democrazia e mercato dei beni, della finanza e dei saperi.
      Secondo Mino Martinazzoli (La Bussola dei popolari, edizioni Massetti 1995), la politica è il fondamento costitutivo per creare umanità in tutte le relazioni umane e, quindi, anche in quelle economiche. Egli afferma che: «Non siamo uguali. Diventiamo uguali per la regola e per la fatica della democrazia. E riconoscere la propria dignità vuol dire cominciare a riconoscere quella degli altri». Per Amartya Sen, la democrazia è un valore mentre il mercato è solo un mero strumento. E Nicola Mancino («Rezzara Notizie», ottobre 1999) osserva che «un'economia più rispettosa dei diritti umani richiede l'adozione di codici di condotta da parte delle multinazionali e l'intensificazione della cooperazione (...). La politica non solo non può rinunciare a governare la globalizzazione, ma per governarla, non deve limitarsi ad inseguire gli effetti indesiderati (...). La

 

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politica ha il compito di impedire che la forza prevalga sul consenso (...). Dobbiamo rivalutare la centralità della difesa dei diritti umani nell'azione politica internazionale. Un governo globale dal volto umano richiede la condivisione dei valori fondamentali dell'uomo: il diritto alla vita, alla libertà, alla giustizia e all'uguaglianza».
      La libertà viene prima e al di là del mercato, non è una merce che si può vendere o comperare, anzi, giustifica, anima e finalizza il mercato stesso. Quando la circolazione dei beni è libera ed equa, diventa ossigeno per le economie in via di sviluppo e il commercio diviene uguale se crea un reciproco vantaggio fra tutti i Paesi partecipanti allo scambio internazionale. Porre l'uomo al centro del mercato, come invocato da Papa Giovanni Paolo II nella enciclica «Centesimus annus», significa porre la politica nell'economia, significa riconoscere un ruolo teleologico all'economia, cioè concepire la scienza economica non solo come scienza di mezzi ma anche come scienza di fini. Quando ciò non avviene, lo strumento è fine a se stesso, il mercato è fine a se stesso e nascono le asimmetrie dei mercati e qualcuno guadagna a scapito di altri. Lo sviluppo economico-sociale o riguarda tutti i popoli o non è sviluppo, non è progresso. Come ricordato da Pierluigi Castagnetti (vedi «Il Popolo» 29 novembre 1999), il fine prioritario della politica economica non può che essere lo sviluppo equo e umano.
      Ricordiamo con commozione ed emozione l'ultimo intervento di Beniamo Andreatta, Maestro di vita e di scienza, in occasione del dibattito sui negoziati commerciali del «Millenium Round», tenuto in Assemblea il 9 dicembre 1999 e riportato nel relativo resoconto stenografico e ne «Il Popolo» del 15 dicembre 1999. Il suo intervento sugli scambi internazionali appare illuminante, profetico e giocato sull'equilibrio fra la mente e il cuore, fra la ricerca della convenienza economica e la ricerca della solidarietà umana. La sua preoccupazione, costante e ripetuta, è la necessità di tenere comunque aperte le economie, con l'obiettivo di finalizzare il commercio all'aiuto dei Paesi poveri, senza inventare dumping, scuse per aumentare i profitti o erigere barriere che nascondono solo le paure, le inefficienze e le inadeguatezze dei Paesi ricchi. Andreatta afferma che: «La sicurezza alimentare, la difesa ambientale, gli standard sociali, sono dall'una e dall'altra parte, visti come pericoli per bloccare le merci dei paesi in via di sviluppo, o visti, invece, come strumenti per impedire la disoccupazione nei settori arretrati delle economie sviluppate, profondamente legate al processo politico di ciascun paese». La ricerca dell'equilibrio della politica degli scambi internazionali è per Andreatta la ricerca della verità, la ricerca dell'uomo, la ricerca della libertà. Trova, nel suo ragionamento, un sentiero in cui la libertà corre in equilibrio dinamico e vitale sul filo del rasoio fra le illibertà di ambo le parti. Il Maestro, spirito libero, mai accomodante con le mediocrità del pensiero e della convenienza, mai adagiato ozioso sulla corrente del momento, né seduto comodo sul consenso della moda, centra la questione della libertà nelle relazioni umane e della libertà e giustizia negli scambi del mercato. Non si schiaccia o si nasconde nella corrente impetuosa, facile e comoda dei dibattito su Seattle contro la globalizzazione. Anzi, ricorda a chi attacca gli organismi internazionali che comunque, nelle illibertà dei potenti, essi hanno tenuto aperto, negli ultimi cinquanta anni, le porte allo scambio, allo sviluppo, alle opportunità delle libertà dei Paesi poveri, rispetto ai precedenti fascismi e totalitarismi che avevano chiuso e depresso le economie, le conoscenze e le coscienze. Andreatta, come Martinazzoli, fonde la politica con l'economia. È fautore del libero e aperto mercato e al tempo stesso colloca al centro dello scambio l'intangibilità del non impiego dei bambini. Quando riflette a voce alta sulla ragionevolezza nell'applicare gli standard occidentali sul lavoro e l'ambiente nei Paesi poveri, la sua preoccupazione continua è la libertà dei Paesi poveri, è la loro possibilità di sviluppo. Per Andreatta l'«altro» è il Paese povero, è il fine dello scambio
 

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commerciale, senza farsi ingabbiare dai dogmi illiberali dei vari meri protezionismi e liberismi. Anche don Primo Mazzolari ha la costante preoccupazione dell'altro, del più povero e ritiene che il ritmo di marcia dello sviluppo vada scandito dal passo dell'ultimo per non divaricare, per non creare ritardi, disuguaglianze e povertà. E pure Amartya Sen accosta la libertà allo sviluppo, quando afferma che lo sviluppo richiede che siano eliminate le principali fonti di illibertà. Andreatta introduce nell'economia la regola etica come gioco endogeno strutturale al motore del mercato; introduce nell'economia il giudizio di valore, il valore della giustizia sociale e della libertà. Così, l'etica e la politica diventano intrinseche all'economia: la giustizia e la libertà stanno insieme alla convenienza nello scambio. Andreatta, infatti, afferma: «Se è giusto impedire, anche con misure di ritorsione commerciale, l'impiego dei bambini nella produzione manifatturiera, cercando di difendere le risorse per il futuro dei paesi in via di sviluppo, non possiamo usare gli standard sociali per ridurre la concorrenza di questi paesi. Esiste una circolarità tra standard e livello di povertà. Credo che di fatto sia il livello di povertà che rende difficile superare i bassi standard».
      C'è la presunzione, almeno nelle intenzioni, di aver tenuto conto del pensiero di Andreatta nella filosofia della proposta di legge. L'ottica di Andreatta è improntata alla volontarietà, alla promozione della responsabilità e dei codici di comportamento, a un sistema di incentivi di orientamento dei soggetti e all'obiettivo del rispetto dei diritti umani fondamentali, a partire dall'esclusione dei lavori minorili. C'è il tentativo di ricercare l'equilibrio, la coesistenza delle motivazioni etiche dell'equità con quelle economiche della libera concorrenza.
      Questa filosofia del testo qui proposto è pure perfettamente coerente con gli impegni concordati e sottoscritti, nella «Carta degli impegni per promuovere i diritti dell'infanzia e dell'adolescenza ed eliminare lo sfruttamento del lavoro minorile», dal Governo e dalle parti economiche e sociali da quasi dieci anni. La Carta degli impegni è stata sottoscritta il 16 aprile 1998 dai Ministri del lavoro e della previdenza sociale, dell'interno, della pubblica istruzione, del commercio con l'estero, per la solidarietà sociale, delle pari opportunità, degli affari esteri, dell'industria, del commercio e dell'artigianato e dalle parti sociali: CGIL, CISL, UIL, Confindustria, Confcommercio, Confesercenti, Confapi, Claai, BIT, ISTAT, UNICEF, CNA, Confartigianato, Confagricoltura, CASA e Cia.
      Gli impegni assunti prevedono che le modalità più efficaci per ottenere risultati siano quelle volontarie, quelle della concertazione, del dialogo sociale e dell'assunzione di responsabilità da parte di ciascun soggetto. Nella premessa, si afferma che «il lavoro minorile costituisce una grave lesione dei valori essenziali della nostra convivenza sociale e dei diritti umani fondamentali riconosciuti e sanciti in molte convenzioni e trattati internazionali (...). I diritti dei bambini e delle bambine sono universali, e questo vale per tutti i bambini e le bambine di ogni etnia, colore e di ogni popolo e paese, ovunque siano collocati geograficamente (...) l'utilizzo dei fanciulli rallenta la crescita economica e lo sviluppo sociale e costituisce una violazione grave dei diritti elementari delle persone umane».
      Fra gli impegni sottoscritti viene scelta la strategia per affrontare la questione del lavoro minorile, ossia la necessità di investire, con progetti specifici, nella scuola, nella famiglia e nel lavoro.
      Il Governo e le parti sociali si impegnano in sede internazionale a promuovere e sostenere una serie di iniziative anche bilaterali. Il Governo si impegna ad utilizzare forme di incentivi e disincentivi affinché gli investimenti industriali all'estero non ricorrano allo sfruttamento del lavoro minorile.
      Le parti sociali si impegnano a definire codici di condotta per settori e le imprese, che internazionalizzano le proprie attività, prevedono il rispetto dei diritti umani fondamentali e l'eliminazione dello sfruttamento del lavoro minorile.
 

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      Impegni e atti legislativi. Molti sono i soggetti e gli organismi internazionali e nazionali che prendono posizione contro il lavoro dei bambini.
      Già da tempo l'OIL ha sottolineato con forza la necessità che i governi adottino una dichiarazione internazionale che fissi i princìpi ineludibili della tutela del lavoro e della persona. I cinque princìpi di base che l'OIL vorrebbe universali sono la libertà sindacale, la libertà negoziale collettiva, il divieto di lavoro minorile, il divieto di ogni forma di schiavismo, il divieto di discriminazioni basate sul sesso («Il Sole 24 ore», 9 gennaio 1998).
      Il Governo norvegese con l'UNICEF e l'OIL dal 27 al 30 ottobre 1997 ad Oslo hanno organizzato una Conferenza internazionale sul lavoro minorile, con la partecipazione di 350 delegati di 40 Paesi. Sono stati individuati provvedimenti concreti a livello internazionale e nazionale. È stata ribadita con forza la necessità di eliminare il lavoro minorile e di proteggere i bambini dallo sfruttamento economico e dal lavoro rischioso per uno sviluppo sano ed equilibrato. Nei Paesi in via di sviluppo dove il lavoro minorile è più diffuso si dovranno appoggiare gli sforzi dei sindacati per sostituire gli adulti ai bambini che lavorano nei settori più a rischio. In senso più globale si suggeriscono politiche economiche mirate a rompere il circolo vizioso della povertà come causa e conseguenza del lavoro minorile. Politiche per sviluppare la sanità e l'educazione (Conferenza di Oslo, 1997).
      Il Governo italiano il 16 aprile 1998 ha promosso la «Carta degli impegni» (citata in precedenza) per promuovere i diritti dell'infanzia e dell'adolescenza ed eliminare lo sfruttamento del lavoro minorile. Documento sottoscritto anche dai rappresentati delle forze sociali, organizzazioni di categoria e sindacati.
      L'OIL ha approvato il 17 giugno 1999 un'apposita convenzione (n. 182 del 1999), in cui si prevedono modalità per estirpare, prima di tutto, le peggiori forme di lavoro minorile (schiavitù, prostituzione e pornografia, lavori pericolosi e impiego nei conflitti armati).
      Un'ipotesi per incentivare il rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori sui mercati internazionali è quella di introdurre, negli accordi internazionali, una «clausola sociale», certificata attraverso un «marchio di qualità», per garantire che i prodotti commercializzati siano stati ottenuti rispettando i parametri «etici».
      Il Parlamento europeo in diverse risoluzioni, tra cui quella del 15 maggio 1997, ha chiesto alla Commissione di elaborare una direttiva sull'etichettatura sociale dei prodotti tessili, degli abiti e delle calzature e all'Unione europea e ai suoi Stati di continuare l'impegno di introdurre la «clausola sociale» a livello di Organizzazione mondiale del commercio (OMC).
      Sempre sulla «clausola sociale» si è più volte espresso il Parlamento italiano. Come accennato, l'XI Commissione della Camera dei deputati, nell'aprile 1998, ha completato un'indagine sul lavoro nero e minorile; nelle conclusioni dell'indagine si afferma che si «ritiene necessario prevedere la garanzia della cosiddetta "clausola sociale", quale strumento idoneo alla certificazione del rispetto delle norme poste a tutela del lavoro minorile nella produzione di beni venduti in Italia. Così come è necessario dare seguito all'impegno assunto dal Governo di prevedere forme di incentivi/disincentivi affinché gli investimenti all'estero comportino l'assunzione dell'impegno, da parte delle imprese, di non ricorrere allo sfruttamento del lavoro minorile».
      L'Assemblea della Camera dei deputati ha approvato nel giugno 1998 la risoluzione n. 6-00051 dell'onorevole Dedoni ed altri, in cui si impegna il Governo a farsi promotore, anche all'interno dell'OMC, di una «clausola sociale» negli accordi internazionali riconoscibile da un «marchio di qualità etica e che attesti che i prodotti non derivano né da lavoro minorile né da sfruttamento di lavoro adulto».
      La X Commissione del Senato della Repubblica ha approvato nell'aprile 1998 una risoluzione che invita il Governo a favorire un marchio di qualità sociale per le imprese italiane che producono e importano

 

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prodotti di qualsiasi natura ed origine. Tale marchio dovrebbe attestare il pieno rispetto dei diritti basilari dei lavoratori e il non impiego di lavoro minorile.
      L'Assemblea del Senato della Repubblica ha approvato nel giugno 1999 la proposta di legge atto Senato n. 2849 ed abbinati, sulla certificazione di conformità sociale dei prodotti realizzati senza l'utilizzo di lavoro minorile. Infine la X Commissione della Camera dei deputati, dopo numerose audizioni e discussioni, su proposta del relatore, primo firmatario della presente proposta di legge, ha approvato l'8 febbraio 2001 un testo (atto Camera n. 6126-A) il cui contenuto la presente proposta di legge riproduce, auspicando che la presente legislatura ne veda finalmente l'approvazione.
      All'articolo 1 sono indicati i princìpi, le finalità, i valori, i diritti umani fondamentali, le convenzioni e i trattati ratificati dalla Repubblica italiana. Al comma 3 si fa riferimento ai codici di condotta inquadrabili e definibili nella Carta degli impegni.
      All'articolo 2 si istituisce un sistema volontario di certificazione d'impresa, attestante che quell'impresa non ha impiegato lavoro minorile nelle sue attività italiane ed estere. L'impresa, per fini etici e anche per aumentare la propria competitività, può inserire nelle sue strategie il marchio di certificazione sociale. Il marchio le viene rilasciato da organismi pubblici o privati di certificazione che sono accreditati con decreto del Ministro delle attività produttive.
      All'articolo 3 si istituisce un sistema che premia le imprese che decidono di chiedere il marchio. Si offre una preferenza nell'ottenimento dei contributi e delle agevolazioni pubblici. I contributi riguardano gli interventi fiscali, creditizi e monetari per l'aiuto alle economie aziendali e per la loro internazionalizzazione.
      All'articolo 4 si istituisce un sistema che premia i Paesi in via di sviluppo che non impiegano lavoro minorile, anche al fine di favorire la sostituzione dei bambini con gli adulti nelle loro produzioni. Si è raccordata questa esigenza con la legge sul debito internazionale dei Paesi in via di sviluppo, nel quadro della cooperazione internazionale.
      All'articolo 5 si autorizza l'Autorità garante della concorrenza e del mercato ad intervenire ogni qualvolta si riscontrino violazioni dei diritti umani fondamentali, a partire dalla presenza del lavoro minorile. Il coinvolgimento dell'Autorità è giustificato dal fatto che ogni violazione etica è anche violazione delle regole della libera, leale ed equa concorrenza fra le imprese.
      All'articolo 6 si prevedono alcune sanzioni che si sommano a quelle dei comportamenti che il mercato attuerà liberamente, in caso di utilizzo di lavori minorili e violazione dei diritti umani fondamentali.
      All'articolo 7 si istituisce la Consulta in tema di conformità sociale e lavoro minorile, in funzione di quella filosofia della Carta degli impegni che promuove la partecipazione delle parti sociali, il metodo della concertazione e la ricerca della responsabilità, nei comportamenti economici coerenti con i princìpi e i valori etici.
      All'articolo 8 si prevede la copertura finanziaria della legge che, ridotta al minimo, non costituisce un onere gravoso per l'erario.
      All'articolo 9, infine, si stabilisce la data di entrata in vigore della legge.
 

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